La
storia del Piano di Assetto del Parco Regionale dei Castelli Romani, deve
ancora vedere scritta la parola fine. Sono passati ben 27 anni dalla legge istitutiva,
ma il Piano del Parco non è opera compiuta. Questa vicenda è tristemente
rappresentativa della realtà delle aree protette del Lazio, dove soltanto il
Parco dei Monti Lucretili e quello dei Simbruini hanno un Piano del Parco
approvato con legge regionale, forse perché sono aree più marginali, poco
urbanizzate e ampiamente boscate; altre aree di importanza strategica − perché
maggiormente sottoposte alla pressione antropica e agli interessi edificatori −
come Parco dei Castelli, Parco Appia Antica, Parco di Vejo, Parco di Bracciano
Martignano, ne sono sprovviste.
Come
sia possibile operare una reale politica di tutela del patrimonio naturale e
culturale, in mancanza di reali strumenti di gestione è uno dei tanti misteri
di questo singolare Paese. Se poi a questo si aggiunge il dimezzamento dei
finanziamenti per i Parchi, si completa un quadro già di per se sconsolante.
Il
Parco Regionale dei Castelli Romani è l’unica area protetta del Lazio la cui
istituzione è stata fortemente voluta dalla popolazione. Alcune associazioni
dei Castelli Romani e personalità della cultura ambientale promossero una
raccolta di firme per richiedere l’istituzione di un Parco nell’area dei
Castelli Romani. Furono raccolte migliaia di firme e presentata alla Regione Lazio
una bozza di legge istitutiva di iniziativa popolare. Ci sono voluti sei anni
di estenuanti discussioni e mediazioni tra le forze politiche, associazioni
ambientaliste e di categoria. Finalmente il 13 gennaio 1984, il Consiglio
Regionale del Lazio approvò la legge istitutiva di quello che fu denominato
“Parco Suburbano dei Castelli Romani”.
A
tutta prima questa legge definì i confini dell’area protetta equivalenti
all’intero territorio comunale di tutti i 15 Comuni che formavano il Parco. Un
colosso di 45.000 ettari di territorio.
Dieci
mesi dopo, con la legge n. 64/84, la Regione ha drasticamente ridimensionato il
confine originario, portandolo da 45.000 a soli 9.500 ettari, lasciando fuori
territori pregiatissimi con dei veri e propri assurdi ecologico-pianificatori
(basta pensare ai Monti dell’Artemisio che la nuova perimetrazione tutelava
solo a metà, con una linea di confine che passava in cresta). Non solo ma
veniva esclusa tutta la zona agricola e lasciati fuori i caratteristici centri
storici, a parte quello di Nemi. Escludere zone agricole pregiate dove si
produce il vino, un prodotto che rappresenta l’essenza stessa dei Castelli
Romani; ed escludere i centri storici così pervasi di storia e tradizioni,
rappresenta un errore strategico in un’ottica di tutela/valorizzazione e di
straordinaria insensibilità culturale.
Entro
diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge, l’Ente gestore del Parco
avrebbe dovuto individuare e adottare la Perimetrazione e il Piano di Assetto
del Parco.
La
legge istitutiva, in attesa del Piano di Assetto, all’articolo 8 prevedeva
comunque delle “Norme di Salvaguardia” da applicare dall’istituzione fino alla
data della entrata in vigore del Piano di Assetto.
Dunque
il Consorzio dei Comuni del Parco aveva tempo diciotto mesi per produrre
Perimetrazione e Piano, ma i tempi non furono rispettati. I cinquantuno
rappresentati (una cifra iperbolica) dei quindici comuni, della Provincia di
Roma e della XI Comunità Montana che insieme formavano l’Assemblea Consortile
del Parco, in quattordici anni non sono riusciti a definire né confini né Piano
di Assetto (continua)
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